Una spedizione che mi ha cambiato la vita
L’ultima volta che ho dato le spalle ad uno dei 14 ottomila era il 2014 quando, assieme a Emrik, con le ossa rotte e l’umore a terra ci lasciavamo alle spalle il Kanchenjunga, la terza montagna più alta della Terra. Adesso a distanza di anni vedo le cose da un’altra prospettiva e ho iniziato prendere gusto a giocare con l’aria sottile degli 8000.
Tutto nasce per caso: Marco Camandona mi disse di avere un cliente che voleva salire l’Everest e che se mi fossi unito anche io, avremmo successivamente provato a scalare il Lhotse.
Marco era stato ingaggiato come guida alpina da Maurizio Cheli, astronauta italiano, che dopo che nel 1997 aveva visto e fotografato dallo spazio il “Tetto del Mondo”, sognava di raggiungerne la vetta con le proprie gambe. Io avevo, ed ho tuttora un cliente, che ormai è un caro amico e un compagno fidato di molte avventure in montagna che da tempo mi chiedeva di accompagnarlo su un ottomila: Sergio Cirio, noto imprenditore di Canelli, un paese della provincia di Asti. Vado in montagna da anni con Sergio e ormai tra di noi c’è un legame unico. Quando scaliamo Sergio semplicemente si fida di ogni mia decisione, siamo una cordata forte e consolidata e in molte situazioni non c’è neanche bisogno di parlarci. In certi periodi scaliamo assieme quasi tutte le settimane e abbiamo percorso vie molto impegnative tipo la cresta Albertini, la Dent d’Herens e la cresta Young sulla nord dei Breithorn. Tra di noi c’è un feeling unico e quindi dopo averci riflettuto bene decisi di proporgli di partire assieme verso il “tetto del mondo”.
Il giorno in cui gli chiesi di partire per l’Everest, non lo dimenticherò mai. Stavamo affrontando una gita di sci alpinismo nella conca di Cheneil e sotto una fitta nevicata presi coraggio. Sergio mi disse: “Franz non aggiungere altro io ci sono” e da lì tutto ebbe inizio…
Iniziò il conto alla rovescia. Non vedevo l’ora di ripartire. La squadra era stupenda. Con Marco ho un rapporto speciale ed era dal 2014 che si andava in spedizione assieme. In più dentro di me sentivo di essere pronto a confrontarmi nuovamente con una grande montagna. Volevo capire se con più anni di esperienza sarei stato in grado di tenere il passo di Marco, considerato da tempo, uno dei migliori alpinisti Himalayani al mondo. In più il format della spedizione mi motivava tantissimo perché racchiudeva le due cose che più amo: il mio mestiere di guida e il fare alpinismo per me stesso. Il piano era semplice “prima il dovere e poi il piacere”. Ovvero prima avremmo affrontato l’Everest con i nostri clienti utilizzando una bombola di ossigeno a testa. Questo per garantire la massima sicurezza a Sergio e Maurizio che invece avrebbero utilizzato le bombole già dal campo 3 a 7300 m. Con noi ci sarebbero stati anche due sherpa con il compito di aiutare Sergio e Maurizio a trasportare il loro materiale. Scalato l’Everest avremmo potuto scalare in totale autonomia e senza ossigeno il Lhotse mentre Sergio e Maurizio avrebbero cominciato a rientrare a casa.
Il 10 aprile lasciamo l’Italia alla volta del Nepal. Per me e Sergio era la seconda volta che mettevamo piede assieme in questa splendida terra. Infatti in preparazione alla spedizione avevamo già fatto tra novembre e dicembre un raid nel Khumbu . Anche questa volta la nostra agenzia è la Seven Summit ormai una certezza nei miei viaggi Himalayani. Nella prima parte del viaggio tutto si svolge velocemente e, senza intoppi, raggiungiamo Namche Bazar a 3440 m, un posto stupendo con il quale ho un feeling incredibile. Qui è prevista una sosta di due giorni per riposare e favorire il nostro acclimatamento. Io e Sergio decidiamo così di concederci delle stupende camminate sotto un tiepido sole primaverile.
Dopo due giorni ripartiamo spediti in direzione EBC (Everest Base Camp). Arrivati il 22 aprile al campo base e dopo un giorno passato a sistemarci iniziamo il nostro acclimatamento. Nel primo giro abbiamo ispezionato l’Ice Fall, invece nel secondo abbiamo puntato diretti al campo 1. Tra un giro e l’altro ci siamo concessi un paio di giorni di riposo. Il nostro campo base è ben organizzato: abbiamo ognuno una tenda personale, una tenda mensa riscaldata, una tenda toilette e una tenda doccia, tutto a portata di mano.
Io e Marco prima della partenza avevamo preparato a tavolino un acclimatamento specifico e dettagliato per scalare in tutta sicurezza. Per essere pronti Sergio e Maurizio avrebbero dovuto pernottare una notte al C3 senza ossigeno invece io e Marco avremmo dovuto superare i 7700/7800 m e a quel punto tutti avremmo potuto tentare la vetta.
Tutto si stava svolgendo secondo i piani, le rotazioni ai campi alti filavano lisce e finalmente ci trovavamo tutti e 4 assieme ad uno dei nostri sherpa, Ramhes, al campo 3 a 7300 m. Eravamo già sistemati e stavamo preparando la cena. Io e Marco in una tendina da due, Sergio, Maurizio e Ramhes in una da tre. Il campo 3 è scomodo e posto a metà del muro del Lhotse tra piccoli seracchi che creano dei pianori dove si possono posizionare le tende. Ad un tratto alla radio sentiamo una chiamata di soccorso, balziamo subito fuori dalla tenda: era Themba, il nostro secondo sherpa che si trovava in difficoltà a circa 7700 m. Io e Marco senza perdere tempo, ci prepariamo e partiamo subito in suo soccorso. Ramhes nel frattempo ci aveva informato che una squadra stava partendo dal campo 2 e che in un paio d’ore sarebbe arrivata al campo 3. Io e Marco intanto salivamo in velocità: lo sherpa aveva un edema polmonare e doveva essere aiutato a scendere il più velocemente possibile. Themba era salito al colle sud per aiutare ad attrezzare la via ma purtroppo il suo fisico non aveva retto lo sforzo… e pensare che aveva scalato 17 volte l’Everest. Dopo un’ora io e Marco, a circa 7600 m, individuiamo lo sherpa. Si trovava a circa 100 m sopra di noi appeso ad una corda fissa sfinito dallo sforzo. Feci uno scatto per raggiungerlo, Marco mi seguiva e appena gli fummo vicini capimmo che era grave. Tirai fuori la corda, lo assicurai e con Marco decidemmo di calarlo il più possibile di modo da farlo riposare un po’. Così iniziammo a scendere, la tattica era ottima: io calavo e Marco da sotto lo assicurava. In poco tempo fummo al campo 3, Ramhes schizzò fuori dalla tenda e agganciò una bombola di ossigeno nuova a Themba. Nel frattempo la squadra di soccorso arrivò da noi e tutti insieme decidemmo di far scendere anche Ramhes con loro. Li guardammo partire con le ultime luci del tramonto e poi ci infilammo nei nostri sacchi a pelo. Il giorno seguente rientrammo al campo base. Ormai il nostro acclimatamento era terminato ed eravamo pronti per la cima!
Il 14 maggio 2018 inizia l’attacco vero e proprio al “Tetto del Mondo”. Siamo diretti al campo 2, ormai il nostro acclimatamento è ottimo e non abbiamo necessità di fermarci al campo 1. Siamo in gran forma e la meteo è perfetta. Il 15 maggio dormiamo al campo 3 a 7300 m. Sergio, Maurizio e gli sherpa con l’ossigeno io e Marco senza. Il 16 mattina alle sette suona la sveglia…mai avrei pensato che le 27 ore seguenti mi avrebbero cambiato la vita. Alle 9:00 cominciamo a camminare con l’obiettivo di arrivare al campo 4, al mitico colle sud.Saliamo tutti assieme con un ritmo regolare, io vicino a Sergio per aiutarlo e sostenerlo il più possibile. Superiamo le fasce Gialle senza problemi e finalmente a 7600 m scorgiamo le tende del campo 4 del Lhotse. Da lì inizia il famoso traverso dei Ginevrini, fatta una piccola pausa, ripartiamo. Io e Sergio caliamo un pelo il ritmo e Marco e Maurizio ci distanziano. Con me e Sergio rimane Ramhes, non ci sentiamo male, ma il nostro ritmo è più lento. Sergio non riesce ad usare bene il respiratore di ossigeno e sia io sia Ramhes cerchiamo più volte di regolarglielo. Io invece mi sento bene: ero quasi ad 8000 m senza ossigeno e per me era la prima volta che toccavo quella quota. Onestamente non me ne resi conto, perché cercavo di dare il massimo ed ero concentrato per la sicurezza di Sergio.
Finalmente alle 18:00 anche io e Sergio arriviamo al colle sud, Marco e Maurizio erano arrivati alle 16:00 ed erano già dentro alla tenda. Io e Ramhes sostituiamo la bombola di ossigeno a Sergio che poi si infila subito nella tenda al caldo. Marco, intanto, sta facendo un briefing con i nostri sherpa, noto che ha una brutta tosse e la cosa non mi piace. Ramhes ha una notizia importante da comunicare: lo sherpa che si occupa di rifornire il colle sud di ossigeno per le nostre due squadre non è arrivato. Ci troviamo catapultati davanti una dura realtà. Ormai erano le 19 e alle 21 bisognava partire per la cima… Che fare? Ogni agenzia che organizza spedizioni commerciali oltre ad avere degli sherpa specializzati che attrezzano la via di salita ne impiegano altri per rifornire i campi alti di bombole di ossigeno per meglio gestire la logistica dei clienti.
Decidiamo di entrare in tenda con Sergio e Maurizio per esporre chiaramente la situazione e trovare una soluzione. Prendiamo posto dentro la tenda, era buio, accendiamo le frontali e cominciamo a parlare, non ricordo chiaramente se cominciai io o Marco ma le parole non le dimenticherò mai: “Ragazzi purtroppo le bombole non sono arrivate. Uno sherpa è stato male, c’è poco ossigeno. Solo una squadra può provare a salire in cima. In totale ci sono: 4 bombole per un cliente, 2 per lo sherpa (da programma ne sarebbero servite 3) e 1 per la guida (da programma ne sarebbero servite 2). Poi ne restano 3 per chi resta al colle sud. In quel momento ci fu il gelo. Nessuno osava parlare, nessuno osava affrontare la situazione. Sergio da gran signore in punta di piedi prese la parola: “Ragazzi, se non ci sono i margini di sicurezza, io non me la sento”. Maurizio dal canto suo: “Io sto bene, vorrei provare”. Io sono in silenzio, sono il più giovane e non me la sento di parlare per primo. Marco tossisce, non è al massimo della forma, aspetta qualche secondo e poi esclama: “Sergio, facciamo provare il nostro bambino?” Io scalpitavo, non sapevo cosa dire, volevo salire non lo nego, ma la decisione non spettava a me. Maurizio ribatté dicendo: “Per me è uguale Marco o François, siete due professionisti esperti e qualificati”. Sergio rispose: “Marco la penso come te! Facciamo salire il bocia”. Io risposi: “Non so cosa dire…Grazie mille… Io me la sento, vado”. Ci fu un attimo di silenzio poi scoppiammo tutti e tre a piangere come bambini, ci abbracciammo, fu un momento bellissimo, uno dei più intensi della mia vita.
Avevo appena ricevuto una grande chance ma allo stesso tempo una grande responsabilità e dovevo dare il massimo per centrare l’obiettivo. Avvisammo Ramhes del cambio di programma, era assieme ad altri sherpa in un’altra tenda e cominciai a prepararmi. Schizzai fuori dalla tenda e divisi i carichi: Maurizio nello zaino doveva avere solo la bombola che utilizzava e nella tuta il suo cibo e il bere! Io avrei avuto: la mia bombola, una di quelle di Maurizio, una corda da 30 m, un kit medico, radio e telefono satellitare. Ramhes invece portava le due bombole che avrebbe utilizzato e due di quelle di Maurizio. Alle 21:00 eravamo pronti: Marco e Sergio uscirono dalla tenda per salutarci. Ci abbracciammo ancora e Sergio prima di partire mi affidò la sua bandiera della Arol (la sua azienda, leader nel campo dell’enomeccanica) e mi disse: “Mi raccomando portala in vetta”.
Iniziammo a salire con passo regolare, siamo gli ultimi ad avere lasciato il colle sud, io faccio da capocordata, Maurizio mi segue e Ramhes a chiudere. Incalziamo subito il ripido pendio che porta agli 8500 m del Balcony, io non sto usando l’ossigeno, consapevole che avendo solo una bombola devo gestirla al meglio. Davanti a noi vedo le frontali degli altri scalatori. La parte finale dell’Everest dal Nepal non è banale se non fosse attrezzata regolarmente dagli sherpa, ben pochi alpinisti riuscirebbero a salirla soprattutto senza ossigeno. Ad un tratto mi accorgo che Ramhes non riesce a tenere il passo, ha un distacco già di 50 m, non posso permettermi di lasciarlo indietro, ne va del successo di tutta la squadra. Dissi a Maurizio di procedere che io lo avrei aspettato. Ecco Ramhes, è di nuovo al passo, ma provato, siamo a 8300 m, senza pensare oltre decido di prendergli una bombola, metterla nel mio zaino e di dargli un diamox per la quota. Distribuito il carico, ora entrambi abbiamo sulla schiena 3 bombole ciascuna del peso di 5 kg per un totale di 15 kg a testa. Per precauzione decido di cominciare ad utilizzare al minimo l’ossigeno. Ripartiamo e dopo pochi minuti siamo di nuovo con Maurizio che è in piena forma. Prima del Balcony il nostro passo era ottimo e avevamo recuperato le altre cordate. Ora ci spettava un tratto dove il terreno diviene molto ripido e sulla corda fissa è facile che si possano formare delle file “a tappo”… Decido di staccarmi dalla corda per vedere con i miei occhi il problema. Salito di 50 m mi rendo conto che la progressione è più macchinosa e gli alpinisti tendono a rallentare. Ridiscendo da Maurizio e gli chiedo se se la sente di superare la fila. Maurizio accetta. Ci leghiamo in conserva, aumento l’erogazione del suo ossigeno e via in un attimo raggiungiamo il Balcony a 8500 m: un terrazzino di pochi metri perfettamente orizzontale che dopo 500 m di pendio ripido è ideale per un buon riposo. Di colpo siamo diventati i battistrada. Sostituiamo rapidamente le bombole di Maurizio e Ramhes e le assicuriamo sul terrazzino per recuperarle in discesa. Ripartiamo quindi verso la cima sud posta a 8700 m. Sta albeggiando, è stupendo: tutta la Terra è ai nostri piedi! Incredibile! La cresta prima della cima sud impenna e ci sono alcuni passaggi verticali che superiamo velocemente e poi via verso l’Hillary Step! Quest’ultimo lo superiamo senza intoppi e finalmente siamo sulla cresta sommitale! Vedo la punta, mi giro e incoraggio Maurizio! Ormai ci siamo vedo la statuetta e le bandierine. Eravamo i primi e tra poco saremo stati soli sulla vetta dell’Everest! Aspetto Maurizio, lo invito a passarmi davanti: mi sembra corretto che sia lui il primo a calcare la punta. Giusto il tempo di ripartire e alzando la testa vedo che dal lato tibetano erano appena arrivati in vetta alcuni sherpa con i loro clienti. Peccato, speravo potessimo goderci almeno per un istante la vetta tutta per noi!
Ancora pochi passi e finalmente alle 06:00 del 17 maggio 2018 io, Maurizio e Rhames siamo sulla vetta dell’Everest! Ci abbracciamo, siamo increduli, la meteo è stupenda si vede la curva della Terra! Non perdo tempo e avviso subito Marco e Sergio. Non nascondo che in quel momento mi è partita una lacrimuccia! Io mi tolgo la bombola che mi inizia ad impicciare e ci prendiamo un attimo per noi. Telefoniamo a casa, siamo felicissimi! Il tempo vola e senza accorgercene restiamo un’ora in vetta!
Alle 07.00 rimetto l’ossigeno, lego la bandiera dell’Arol che mi ha dato Sergio alle bandierine e iniziamo la discesa. In montagna quando si raggiunge la cima, si è solo a metà dell’opera e tante volte neanche! Ripartiamo subito concentratissimi, non possiamo commettere errori. All’Hillary Step incontriamo le prime cordate e dobbiamo fare un po’ di slalom per continuare a scendere regolarmente. Nulla di difficile e soprattutto nulla di nuovo per chi è abituato a muoversi nei giorni di massima affluenza sul Cervino! Siamo molto rapidi e verso le 12 siamo di ritorno al colle sud. Mezz’ora di stop e ripartiamo, vogliamo arrivare al campo 2. Ramhes è stanco e ci dice di iniziare a scendere perché lui vuole riposarsi di più e comunque ci saremmo tenuti in contatto via radio. Iniziamo a scendere molto spediti siamo concentratissimi. Alle 17:00 siamo al campo 2 a 6400m. Chiamo Rhames via radio e mi dice che è ancora oltre i 7000 m e che avrebbe dormito al campo 3. Guardo Maurizio e gli dico: “Che facciamo? Rhames non arriva e ha il tuo sacco a pelo… Te la senti di rientrare al campo base?”. Maurizio non è convinto ma accetta. Alle 17:30 partiamo. Iniziamo la lunga discesa nella valle del silenzio.
Decido di lasciare tutto nella mia tenda al campo 2 per esser pronto per il nostro attacco al Lhotse. Prendo tutto il materiale di Maurizio ci leghiamo in maniera classica con la corda che avevo nello zaino e partiamo. Arriviamo al campo 1 e la notte cala di colpo: Maurizio inizia ad essere molto stanco. Nell’ice fall mi chiede di essere calato quindi inizio a calarlo nei tratti verticali un po’ come facciamo sul Cervino. Alle 22:00 mi accorgo che finalmente siamo in piano e vedo una luce che mi viene incontro, illumino con la frontale e vedo Sukra, il nostro cuoco, con due coca cola. Capisco finalmente che è finita e che ce l’abbiamo fatta! Slego Maurizio, ci abbracciamo e beviamo le coche! Corriamo verso le nostre tende. Entro di corsa nella tenda di Sergio, lo abbraccio e scoppiamo a piangere! Dopo esco e Marco è lì fuori che mi aspetta: ci abbracciamo, siamo felicissimi perché avevo appena scalato il mio primo 8000 e tra due giorni assieme avremmo avuto la chance per il Lhotse e non volevamo sbagliare!
LHOTSE
20 maggio. Dopo due giorni di riposo è il momento di ripartire. Io e Marco abbiamo una tattica semplice e veloce con solo due campi, per sfruttare al meglio la finestra di bel tempo che sembra essere l’ultima della stagione. Il 20 sera siamo al campo 2 abbiamo appena cenato e siamo davanti alle nostre due tende quando all’improvviso sentiamo arrivare due elicotteri: ci avviciniamo e su uno c’era il nostro amico Maurizio Folini. Maurizio scende, facciamo due chiacchiere e ci racconta che stavano evacuando alcune persone con malori d’alta quota. Ad un tratto il primo elicottero parte (e fin qui tutto normale), dopo qualche minuto sentiamo uno sherpa che cerca il suo compagno che stava lavorando nelle operazioni di imbarco degli elicotteri. Ci guardiamo e ci viene subito un dubbio: dietro alla piazzola c’è un crepaccio molto lungo ma largo appena 30/40 cm. Corriamo a guardare e sul bordo troviamo qualche macchia di sangue, lo sherpa allontanandosi dall’elicottero è caduto nel crepaccio. Arrivano molte persone e molto velocemente gli sherpa organizzano assieme ad alcune guide un’operazione di soccorso. Maurizio rimane pronto con l’elicottero per evacuare lo sherpa. La squadra recupera il povero malcapitato che è in condizioni gravissime. Lo imbarcano velocemente sull’elicottero che decolla in pochi secondi. La sera Maurizio via messaggio ci scrive che lo sherpa non ce l’ha fatta, è morto in ospedale a Namche.
La notte come al solito è lunga e accompagnata da pensieri poco felici. La mattina dopo ci svegliamo e fortunatamente ritroviamo la concentrazione e la giusta motivazione per salire al campo 4. La salita si svolge al meglio, io mi sento in gran forma e verso le 16 siamo al campo 4 a 7600 m.
Ci infiliamo dentro la nostra tende mentre il sole è ancora alto, cuciniamo e ci sdraiamo sui materassini con le tute d’alta quota ben chiuse. Non abbiamo con noi i sacchi a pelo: Marco ormai è anni che per riposarsi qualche ora nei campi alti ne fa a meno per risparmiare peso ed essere più riposato. Stiamo bene e siamo molto concentrati ma allo stesso tempo riusciamo anche a scherzare e forse grazie anche ad un po’ di ipossia prima di assopirci ci mettiamo a cantare.
Alle 23 suona la sveglia e saltiamo in piedi come delle molle, ci beviamo un caffè mangiamo qualche biscotto e via! Usciamo dalla tenda, calziamo i ramponi e partiamo. Dico a Marco di fare lui il passo: in queste situazioni ha molta più esperienza di me. Entriamo nel lungo canale che porta alla vetta e ci accorgiamo che sotto di noi si sta scatenando un temporale. Era una cosa che non avevo mai visto sopra di noi c’erano le stelle e sotto i 7000 m si scatenava un temporale fortissimo con tuoni e fulmini che illuminavano a giorno tutta la valle del silenzio. Verso le 5, inizia ad albeggiare e chiedo a Marco di poter passare avanti e dare il ritmo, mi sentivo bene e volevo vedere cosa potevo fare a quelle quote. Verso le 7:30 iniziamo a vedere la punta e io non stavo più nella pelle e aumento il ritmo. L’ultima parte prima della vetta è una sorta di pinnacolo roccioso addomesticato dalle corde fisse. Finalmente alle 8.30 sono in vetta: è una giornata splendida, si vedono il Makalu e il Cho Oyuo e sembra di poter toccare l’Everest e il Nuptse. Marco arriva qualche istante dopo di me. Ci abbracciamo, siamo contentissimi: è un momento stupendo, sono sulla vetta del mio primo 8000 senza ossigeno e vicino a me c’è Marco, un caro amico, un maestro, un’ispirazione…insomma non avrei voluto essere lì con nessun altro al mondo.
Restiamo circa venti minuti in vetta, telefoniamo a casa, beviamo qualcosa e cominciamo la discesa. Alle 16:30 siamo di ritorno al campo base, stanchi ma molto soddisfatti. Il giorno dopo comincia il lungo viaggio verso Kathmandu dove avremmo preso il nostro volo per l’Italia.
Questa spedizione la considero una svolta importante nel mio percorso perché mi ha fatto capire quanto ancora posso spingere oltre il mio corpo in alta quota. Grazie a questa consapevolezza spero di poter realizzare alcuni, tanti, dei sogni che ho sulle più alte montagne della Terra.
Ci tengo a ringraziare molto tutti i miei compagni di spedizione per aver condiviso con me questi due bellissimi mesi della mia vita. In particolar modo ringrazio Sergio e Marco per aver creduto in me e per avermi dato la possibilità di toccare per un istante il tetto del mondo