Dopo l’ascesa al Nanga Parbat mi sentivo in gran forma. Arrivati a Skardu, iniziammo subito a prepararci per ripartire verso il Baltoro. Immaginavamo Skardu diversa, credevamo di riuscire a riposarci e rilassarci di più e meglio. In realtà questa cittadina, che di fatto è la porta d’accesso alle grandi montagne del Karakorum, presenta un clima molto torrido con temperature altissime.  Gli hotel e i servizi sono molto spartani, tra le vie c’è molto traffico e oltre al museo Italiano sul K2 c’è ben poco da visitare. Non esiste un ristorante internazionale, è presente qualche raro e mal fornito negozio di montagna e l’aeroporto. Anche correre e allenarsi al trave è difficile a causa delle alte temperature e al traffico che sembra quello di una grande metropoli ma senza le zone ZTL. Insomma capimmo presto che era meglio scappar via velocemente e cercare di restare concentrati sui nostri prossimi obiettivi.

Lasciammo Roger a Skardu, lui aveva in programma di salire solo il Nanga e mentre noi eravamo impegnati su K2 e Broad avrebbe accompagnato un gruppo di trekkers come guida al campo base del K2. Nel gruppo ci sarebbero stati alcuni amici valdostani tra cui la mia fidanzata Alessia, la fidanzata di Roger, Federica, e Sergio Cirio uno dei miei migliori amici e compagni di scalate di sempre. Sergio per me oltre ad essere un inossidabile compagno di cordata è una persona con la quale ho un rapporto speciale. Io e Sergio abbiamo molti anni di differenza, si può dire che per me è come fosse un nonno, qualcuno che non mi stanco mai di ascoltare e con il quale in ogni momento ho qualcosa da imparare. I trekkers sarebbero arrivati qualche giorno più tardi e noi non potevamo aspettare di più, quindi salutammo Roger e la mattina del 10 luglio partimmo con le jeep in direzione Askhole. Al nostro gruppo si è aggiunto un alpinista Italiano di nome Mattia Conte che abita a Milano e ha una casa a Cervinia. Mattia è un alpinista che scala da pochi anni ma è ambizioso, forse troppo, e si confronta con le cime di 8.000 m. senza ossigeno e senza Sherpa. Alla partenza da Skardu il nostro team era composto da Emrik, Jerome, Marco, Mattia e Pietro.

Arrivati ad Askhole, il clima era meraviglioso e ne approfittai per fare una corsa. Purtroppo, il bel tempo è durato poco, infatti a metà del trekking di avvicinamento cominciò a diluviare e non smise più fino al nostro arrivo al campo base. Il trekking verso il K2 si svolge nella prima parte seguendo la valle del fiume Bradu con un clima desertico. Si dorme in alcune oasi (Joula, Palu) dove le piante danno un po’ di refrigerio e si trova un po’ di acqua pulita. Dopodiché si percorre tutto il ghiacciaio del Baltoro senza compromessi e senza scorciatoie fino al Concordia per poi virare a nord sul ghiacciaio Godwin Austen fino al campo base di K2. Si dorme ancora a Urdokas, una piccola oasi a lato del ghiacciaio e poi solo più campi sul ghiaccio (Goro 1 e 2, Concordia). Visto il nostro acclimatamento, abbiamo saltato alcune tappe e abbiamo raggiunto il BC del K2 il 15 luglio in 5 giorni di cammino da Askhole. Il clima era umido ma non piove più come i giorni prima. Da Concordia in su le nuvole si diradarono e potemmo ammirare tutta la maestosità del K2 e vi assicuro che ad ogni passo ci si sente sempre più piccoli!

Arrivati al campo base, la meteo annunciò un’importante finestra di bel tempo per i giorni successivi, così iniziammo subito a discutere su quale fosse la strategia migliore da adottare. Prima il Broad Peak oppure il K2? Ovviamente Marco spingeva per il Broad, lui aveva già salito nel 2000 il K2 con una salita epica al fianco di Abele Blanc e Valdemar Niclrvicz.

Anche Dawa Sherpa, leader di Seven Summit, l’agenzia che si occupa dell’allestimento delle corde fisse su gran parte degli 8000 e ovviamente anche sul K2, ci consigliò di iniziare dal Broad. Sul K2 ci sarebbe stata tantissima gente che ci avrebbe costretto a lunghe attese nei tratti più tecnici e per noi che scaliamo senza ossigeno sarebbe stato un grosso rischio. Conosco Dawa da tanti anni e mi fido di lui, inoltre anche Marco, con l’esperienza dei suoi 11 ottomila senza ossigeno, concordava. Quindi era deciso io, Pietro, Marco e Mattia ci saremmo mossi verso il Broad Peak a 8.047 m mentre Jerome ed Emrik avrebbero fatto una ricognizione fino in cima alla Piramide Nera ovvero al campo 3 a 7… del K2.

Marco e Mattia hanno deciso di dormire al BC del Broad la sera del 17 luglio per poi proseguire il 18 fino al campo 3 e poi tentare la vetta il 19 luglio, scendendo nuovamente al BC del Broad. Pietro li avrebbe raggiunti al campo base la mattina del 18 luglio per poi scalare con loro i giorni seguenti. Io invece mi ero fissato un obiettivo molto ambizioso ovvero quello di tentare a vista una montagna di 8000 m portando con me tutto il materiale necessario salendolo nella maniera più veloce possibile, quindi partendo dal campo base e facendoci ritorno senza sostare nei campi intermedi. Avevo già scalato con questo stile “one push” il Manaslu e il Nanga ma su entrambe le montagne conoscevo parzialmente la via. Qui sarebbe stato diverso: non conoscevo nulla, quindi avrei dovuto dosare bene le mie energie ed essere preparato a tutto per non rischiare di essere troppo presto senza forze. Al campo base del Broad i giorni prima trovai il mio amico Benjamin Vedrines. Benj è un alpinista fortissimo con un fisico fuori dal comune. Aveva già salito i giorni prima il Broad e adesso voleva fare il record di salita e lanciarsi dalla punta con il parapendio. Decidemmo di partire assieme e fin dove era possibile farci compagnia. Avevamo due stili molto diversi: lui aveva già tutto il materiale sulla via depositati i giorni precedenti nei punti dove gli sarebbe servito mentre io avevo tutto con me per un totale di 10 kg di zaino.

Il 18 luglio alle 22:00 in punto lasciai il campo base del K2 e dopo un’ora di cammino, in compagnia della mia frontale, incontrai Benj al campo base del Broad. Facemmo un break nella sua tenda mensa, una tazza di caffè, due biscotti e via. Alle 23:55 eravamo alla fine del campo base a 4.900 m dove Benjamin aveva costruito un enorme kern dal quale, di comune accordo, decidemmo di far partire il tempo. Da quel punto alla vetta c’era un dislivello di circa 3.147m. A mezzanotte in punto partimmo!! Benj si mise a fare il ritmo e io mi misi dietro in scia come un ciclista. In quell’istante ho rivissuto le stesse sensazioni delle partenze delle mie 10 Pierra Menta. La Pierra Menta è il Tour de France dello sci alpinismo, si svolge ogni anno ad Areches Beaufort e in 4 giorni di gara gli atleti coprono un dislivello positivo di 10.000 m tra creste, canali, migliaia di inversioni e discese vertiginose. Benjamin aveva un ritmo incredibile, era molto più leggero di me. Nei giorni prima aveva depositato tutto il suo materiale nei campi in quota così da permettersi di partire con un piccolo zaino da trail per di più vuoto. Onestamente però c’era anche un’importante differenza di ritmo, fossi stato leggero come lui non avrei tenuto il suo ritmo, quindi poche scuse era più veloce di me. Dopo circa mezz’ora al crampon point lo salutai e decisi di salire al mio ritmo. In 1 ora e 21 minuti raggiunsi il campo uno a circa 5.600 m. Stavo bene e avevo già percorso 700 m. Continuai e in 3 ore 40 minuti ero al campo 2 a 6.212 m. Qui incontrai Mattia che mi raccontò di non essere riuscito a tenere il ritmo di Marco e Pietro e di essersi fermato al campo 2 per non compromettere la sua scalata. Mi invitò nella sua tenda dove con il mio fornello mi feci acqua e mangiai qualcosina. Mi cambiai, misi gli scarponi pesanti e i piumini d’alta quota. Salutai Mattia e ripartii, stavo bene ero in sintonia con me stesso e con l’ambiente circostante. Stava sorgendo l’alba ed era stupendo! Scattai un sacco di foto al K2, al Masherbrum e a tutte le altre vette. Era veramente uno spettacolo magnifico.

Dopo 6 ore e 30 minuti arrivai al campo 3 a 6.850 m dove trovai il mio amico Themba Sherpa con il quale avevo condiviso anni prima la vetta del Manaslu. Themba mi conosce bene e sa benissimo lo sforzo al quale mi stavo sottoponendo! Mi preparò del caffè, mi offrì dei biscotti e mi riempì di acqua calda la borraccia. A queste quote questi gesti non hanno prezzo!! Ripartii di buon passo verso il Broad col che si trova tra la punta centrale 8.011 m e quella principale 8.047 m. Purtroppo tra i 7.300 m e i 7.700 m il vento aveva ricoperto la traccia costringendomi a ritracciare tutto. Questo mi costò molte energie ma comunque arrivai al colle in forma. Appena prima del colle incontrai Pietro, ci abbracciammo, mi raccontò di aver raggiunto la vetta e fui veramente contento per lui. Mi diede forza e mi disse che stavo andando bene e che non dovevo mollare. Iniziai a percorrere la cresta, il terreno era finalmente più tecnico e mi divertivo un sacco ad affrontare i facili passaggi di misto che mi trovavo davanti. A circa 7.900 m. incontrai Cama che mi disse felice di aver raggiunto la vetta del suo dodicesimo ottomila. Non volevamo più lasciarci, piangevamo entrambi, eravamo contenti per l’importante risultato di Marco. Alla fine Marco mi diede coraggio e ripartii. Guardare un compagno voltarsi e scendere è sempre un momento difficile. Un po’ perché c’è invidia, lui ha finito e sta scendendo e tu devi ancora tribolare ma in realtà sentirci soli a 8.000 m ci rende fragili ed è una cosa che mentalmente ci fa paura. Dopo qualche metro mi si presentò davanti Dennis Urubko “la leggenda” che io conoscevo solo di vista. Sapevo che anche lui aveva salito il Broad in giornata. Gli feci i complimenti per la cima e gli chiesi un selfie. Lui mi rispose: “Va bene ma poi tu scendi con me ! A quest’ora è tardi per continuare” Scattai la foto e gli risposi che da lì al campo base avevo impiegato 10 ore e mezza, vidi cambiare l’espressione sul suo volto e di colpo mi disse: “Allora fila su!  Ci vediamo dopo campione”.

Mi gasai a più non posso: ero a 8.000 m, tutto stava andando in maniera perfetta e ho pure ricevuto i complimenti da Urubko, cosa potevo chiedere di più? Purtroppo non potevo immaginare che da lì a poco tutto sarebbe cambiato. Dopo qualche istante vidi volarmi sopra la testa il parapendio di Benjamin, ero felicissimo per lui, aveva realizzato il suo sogno facendo veramente qualcosa di incredibile! Quante emozioni in poco meno di un’ora: Pietro, Marco, Dennis e Benjamin. Ormai mancavo solo io e questa giornata sarebbe stata perfetta! Arrivai alla Rocky summit ma lì mi capitò qualcosa che mi avrebbe segnato per sempre. Appena prima della cima mi trovai davanti una cresta affilata e un piccolo diedro con una corda fissa che porta sulla “Rock”.

In quell’istante si presentò davanti a me, esattamente in piedi sulla punta, un uomo con una tuta arancione e degli scarponi della ditta SCARPA. Ci osservammo, lui aveva l’ossigeno, ci scambiammo uno sguardo e a seguire un gesto di normale routine. Con le mani gesticolammo per metterci d’accordo su chi avrebbe affrontato per primo quel pezzo dove si poteva passare uno alla volta. Cedetti il passo e mi sedetti tranquillo su una roccia dalla quale osservavo attentamente l’uomo scendere faccia a valle. A un tratto vidi questa figura inciampare e in una manciata di secondi sparire nell’abisso della parete sud. Restai impietrito per qualche secondo, poi di colpo mi sbloccai, guardai l’orologio: erano le 11:00 ed era da 11 ore che camminavo e mi trovavo a 8.035 m. Alcune domande mi assalirono. Perché non si è assicurato alla corda? Perché non la prese manco in mano per aiutarsi a scendere?  Mi misi subito a chiamarlo usando tutto il fiato che avevo in corpo, andai in qua e in là per la cresta continuando ad urlare, ma senza risposta. Ad un tratto presi coraggio e scesi lungo la parete.

Scesi per circa 60-70 m affrontando alcune rocce, avevo i ramponi leggeri con la talloniera di alluminio e la picca da sci alpinismo sempre in alluminio e il luogo era molto ripido. Capii poco dopo che stavo facendo una cavolata, avevo attrezzatura al limite per fare ciò che stavo facendo, ero stanco e spossato quindi decisi di risalire e tornare in cresta. Mi sedetti in cima alla Rocky Summit, era passata un’ora da quando avevo guardato l’ora l’ultima volta.

Ero solo, non sapevo cosa fare e decisi di prendere la radio e chiamare Emrik al campo base. Chiamai più volte e nessuno mi rispose, allora accesi il satellitare e chiamai a casa Barbara, la moglie di Marco. Quando siamo in spedizione lei è disponibile h24 e sicuramente mi avrebbe aiutato. Il telefono squillò due volte e di colpo sentii la voce di Barby che disse: “Allora? Sei su?” “No! Ti devo dire una cosa…non volevo chiamarti per questo ma non ho altra scelta”.

Le raccontai tutto per filo e per segno e le dissi che dovevo assolutamente parlare con il campo base. Chiusi la telefonata e dopo un tempo non definito sentii la voce di Emrik per radio. Risposi subito e lui mi chiese immediatamente come stavo e cosa fosse successo. Gli raccontai tutto e di colpo calò un silenzio devastante, dopo qualche secondo sentii la voce di Emrik che mi diceva: “Che cosa ci fai ancora lì? Scendi subito!” Non ci pensai nemmeno un istante e come una marionetta cominciai a scendere. Non ho avuto nemmeno un istante un dubbio o un ripensamento, Emrik aveva ragione: avevo fatto ciò che potevo e adesso dovevo pensare a me stesso e scendere.  Mi accorsi subito di non essere lucido come prima, ero tranquillo ma dovevo prestare più attenzione a ciò che facevo. Arrivai al Broad Col e trovai altri alpinisti ai quali mi unii per affrontare le doppie che scendono dal colle sul ghiacciaio. Sotto il colle mi ripresi un po’e aumentai il passo. Superai tutti e persi parecchia quota. Avevo ormai il campo in vista ed ero a circa 7000 m. A un tratto qualcosa attiro la mia attenzione. Sulla traccia iniziai a trovare degli strani oggetti: una giacca in Gore, dei guanti e uno scarpone SCARPA!!

Guardai meglio e vidi davanti a me un solco nella neve che attraversava la traccia. Nel solco ogni tanto c’erano delle macchioline rosse, come di sangue, questa specie di trincea spariva dietro a un dosso e non potevo vedere dove finiva.

Guardai la parete sopra di me e finalmente capii…era la traccia lasciata dall’uomo che avevo visto precipitare. Era per forza la sua perché lo scarpone era identico al suo della ditta SCARPA e inoltre la direzione era quella della Rocky Summit. Dalla mia esperienza come soccorritore sapevo che ogni tanto i corpi quando prendono degli urti importanti diventano come dei sacchi dove la pelle trattiene tutto mentre all’interno si frantuma tutto. Ecco il perché lo scarpone era li da solo, più in alto vidi il secondo scarpone e a quel punto non ebbi più dubbi. Non fu necessario seguire la traccia: ero sicuro che seguendola avrei trovato il corpo. Arrivai al campo verso le 16:00 dove Pietro con un grandissimo gesto di altruismo mi aspettò! Ci abbracciammo, ero felicissimo di vederlo. Si è sacrificato per me e questo non lo dimenticherò mai. Di comune accordo decidemmo di fermarci lì. Eravamo entrambi esausti e non aveva senso continuare. Avevamo però un problema… entrambi non avevamo il sacco a pelo figuriamoci cibo, fornello e tenda. Fortunatamente si avvicinarono a noi Galjen e Nurbu Sherpa, due amici con i quali avevamo condiviso il campo base al Nanga. Ci proposero di usare la loro roba perché alle 21:00 sarebbero partiti con le loro rispettive clienti per la vetta. Alle 20:30 ci lanciammo nella loro tende, senza mangiare e bere e crollammo in un sonno profondo. La mattina dopo, ad un orario che non ricordo, sentii Pietr che mi chiamava: “Cazza, dobbiamo scendere!”. Prima che mi alzassi passarono un paio d’ore, Pietro mi chiamò almeno 100 volte. Entrambi eravamo stanchi e avevamo la vista appannata. Iniziammo a scendere molto lentamente. Io era da più di 40 ore che non facevo un pasto! Lentamente perdevamo quota e pian pianino stavamo meglio! Sapevo che quel giorno Alessia avrebbe raggiunto il campo base del K2 e saperla lì era la mia più grande motivazione. Finalmente nel primo pomeriggio arrivammo sul ghiacciaio Godwin Austen! Decidemmo di non passare dal BC del Broad ma di usare un sentiero fatto dallo Sherpa per arrivare direttamente al BC del K2. Raramente ricordo uno sforzo ma quell’ora e mezza per raggiungere il base la ricordo benissimo. Non salivamo più, ogni 10 passi ci sedevamo sugli zaini. Quasi all’altezza del campo base trovammo un torrente da attraversare, per assicurarsi c’era una corda fissa ancorata a delle viti da ghiaccio ormai praticamente fuori dal ghiaccio. Cadere nel fiume sarebbe stato un suicidio anche nel pieno delle nostre forze, quindi che fare? Presi coraggio e con la picozza in mano feci un balzo dal lato opposto. Senza usare la corda e con l’aiuto della picca feci degli scalini per i piedi e degli scalini per le mani. Riposizionai le viti da ghiaccio e Pietro riuscì a passare in sicurezza! Questo gesto mi costò le ultime energie e ci volle parecchio prima di riprendermi. Alle 16:00 arrivammo al campo base del K2 totalmente esausti. Abbracciai fortissimo Alessia, Sergio e tutti gli altri. In quel momento capii di essere ritornato al mondo! Mangiammo e bevemmo a più non posso e alle 20:00 crollai in tenda abbracciato da Alessia. Non ringrazierò mai abbastanza Pietro per il suo grandissimo gesto di altruismo! Senza di lui le cose avrebbero potuto andare molto peggio. In situazioni come queste che si vede l’unione e l’amicizia che lega la nostra squadra.

Onestamente non ho nessun rimorso per quello che ho fatto, doveva andare così. Dal momento che sono una Guida Alpina e un Soccorritore del Soccorso Alpino Valdostano era giusto che provassi a fare qualcosa per aiutare questa persona, da quel momento in poi tutto il resto non contava più. Il giorno seguente, seguendo le mie indicazioni gli Sherpa trovarono il corpo e mi portarono alcune foto per il riconoscimento. Arrivarono da me anche due ragazze inglesi, compagne di spedizione del ragazzo e scoprii che era un inglese, si chiamava Gordon, aveva 40 anni e due figli piccoli. Era un militare e faceva parte di una spedizione dell’Esercito Inglese composta da soli militari. Nei mesi seguenti scrissi una dichiarazione sull’accaduto di modo che i figli e la moglie potessero avere accesso all’eredità e ai premi delle assicurazioni. Inoltre fui incluso in alcune riunioni via “meet” dell’Esercito Inglese che voleva capire come evitare in futuro questi incidenti. Onestamente credo che questa sia stata la strada giusta da percorrere! Analizzare gli incidenti o i mancanti incidenti sta alla base di ogni attività esposta a dei rischi. A volte, questa strada, può essere dolorosa e non piacevole però è uno dei modi migliori per evolvere e migliorarsi.

Questo evento compromise parecchio il seguito della spedizione dove ad attenderci c’era un signore chiamato K2….