Free way…é il titolo del film che abbiamo montato sulla nostra spedizione in Cina.

Un mese stupendo, passato tra amici a scalare liberamente ed esplorare le montagna della regione del Sichuan. Per noi é stato come per un bambino avere davanti un foglio bianco e poter disegnare tutto ciò che gli passava per la mente.

Settembre 2017, partenza in direzione Chendu China. Il nostro gruppo era formato da 6 persone: Io, Emrik Favre, Francesco Ratti, Tomas Franchini, Mateo Faletti e Fabrizio Bicio Delai.

La nostra idea era semplice: andare nel massiccio del Minya Kinka, posizionare un campo base nella valle che scende dalle pendici del Monte Edgar e scalare il più possibile.

Arrivammo veloci a ridosso delle montagne e con due giorni di trekking riuscimmo a piazzare il nostro campo base a circa 3800 m. Spronare i portatori per fare l’ultimo step non fu facile, a differenza di Nepal e Pakistan qui la gente non vive di turismo. I nostri portatori erano dei contadini che hanno accettato di aiutarci per guadagnare qualche soldo extra.

Montammo il nostro campo base fuori dalla morena, c’era un’umidità pazzesca: tutti i giorni pioveva, non avevo mai visto nulla di simile. Il tempo in questa regione è molto strano. Essendo la prima catena montuosa che si innalza sopra le pianure della Cina sud- orientale, sul versante della catena esposto verso la piana, ristagna sempre la nebbia. Questa nebbia svanisce quasi sempre al di sopra dei 4000 m quindi di fatto quando scalavamo il tempo era quasi sempre bello mentre i giorni al campo base erano un inferno. Non riuscivamo a far asciugare nulla, l’acqua penetrava ovunque persino all’interno delle tende.

Iniziammo subito a muoverci e individuammo due obiettivi nelle vicinanze del campo base. Ci dividemmo in tue team i tre valdostani e i tre trentini. Emrik, Francesco ed io ci dirigemmo verso una bella cima rocciosa che stimavamo attorno ai 5000 m. Con una lunga giornata di scalata riuscimmo ad aprire una splendida via di roccia di circa 1000 m con difficoltà fino al V che chiamammo *Welcome to the Jungle*. Rientrammo al campo base e la sera stessa scrivemmo la relazione, aspettammo a dare il nome alla vetta che quotammo però 5030 m. Riposammo un giorno e poi decidemmo di fare squadra per cercare una via per arrivare sul versante ovest del Monte Edgar che anche se non dichiarato, sotto sotto rimaneva il nostro principale obiettivo. Partimmo di buon ora: non c’era sentiero, non c’era mappa, solo una direzione. Dopo svariate ore di cammino la strada ci fu sbarrata da un enorme seraccata. Si vedevano crolli ovunque ma decisi di non mollare: attrezzammo un passaggio nella parte destra della seraccata che ci fece accedere ad una parte rocciosa. Il tratto era breve ma molto pericoloso e non potevamo stare lì sotto a lungo. Proseguimmo per cenge fino ad intravedere un colle che ci avrebbe dato accesso al bacino glaciale sotto la parete ovest dell’Edgar. All’improvviso una placca ci sbarrava la strada. Senza perdere tempo mi infilai le scarpette e la superai. Gli altri con gli zaini pesanti, mi seguirono. Ormai la strada verso l’Edgar era spianata. Piazzammo le tende appena fuori dal ghiaccio a circa 5200 m. Tomas era talmente gasato dal lavoro fatto che decise di chiamare il nostro campo *Campo degli Italiani*.

L’indomani decidemmo di puntare ad una cima ancora vergine situata di fronte all’Edgar di cui non conoscevamo nemmeno  la quota. La via non sembrava difficile: dovevamo risalire il ghiacciaio fino ad un colle per poi affrontare un pendio di neve di circa 200 m. Dopo alcune ore di salita arrivammo in vetta io Thomas e Emrik e la quotammo circa 6174 m. Decidemmo di chiamare la vetta *Twenty Shan* perché nessuno dei tre aveva ancora 30 anni. Shan è il nome cinese per indicare un picco, una cima e si mette sempre dopo i nomi delle montagne. Rientrammo al campo con l’idea di fare ritorno al campo base il giorno dopo. L’indomani Tomas però ci fece una sorpresa. Verso le 08:00, Matteo ci comunicò per radio che Tomas aveva raggiunto alle 06:00 la vetta dell’Edgar. Ero senza parole aprì di colpo la tende e vidi Tomas riposare al colle che avevamo raggiunto a fatica il giorno prima. Decisi di andargli incontro, presi un termos di tè e mi avviai verso il colle. Ci incontrammo sotto la parete ci abbracciammo. Potevo vedere chiaramente la sua traccia avvicinarsi alla parete e le sue peste lungo la sua via. Gli feci i complimenti e gli passai i thermos. Tomas era felicissimo di vedermi. Dopo qualche minuto rientrammo al campo e poi giù tutto d’un fiato fino al campo base. Onestamente questa è la più bella impresa alpinista che ho avuto la fortuna di assistere. Una salita aperta in solitaria, totalmente in free solo in maniera leggera, veloce, con il minimo equipaggiamento. Semplicemente una realizzazione perfetta.

Due giorni di riposo e questa volta avevamo fame di roccia, così il team VDA si diresse verso un imponente pilastro che distava a circa tre ore dal campo base. In una giornata di tempo ottimo con scarpette e magnesite aprimmo una stupenda via con difficoltà fino al 6b e ci calammo in doppia in un canalone sul versante a fianco.

Rientrati al campo base ci venne l’ispirazione: decidemmo di dedicare questa vetta a Gerard Ottavio e invece la vetta aperta il primo giorno a Joel Deanoz entrambi scomparsi un anno prima sul Cervino.

La via invece la chiamammo *Meteopatia* e la valutammo: 340 m. 6b max. 6b obbl.  I gironi seguenti decidemmo di esplorare altre zone così io Francesco ed Emrik ci dirigemmo a nord dell’Edgar per esplorare un altro piccolo massiccio montuoso nella Nanmengau Valley. In due giorni di scalata riuscimmo a scalare tre fantastiche vette unite da una stupenda cresta molto aerea e logica perché creava un vero ferro di cavallo. Nominammo e quotammo le tre punte : P.ta Barbara 5.530m. P.ta Elisabetta 5.740 m. e P.ta Patrizia 5.852m. in onore delle mie zie e di mia mamma e ovviamente la cresta che le univa la chiamammo “La cresta delle tre Sorelle” che nel complesso valutammo : dislivello 600 m. (dal ghiacciaio) IV, M4 (breve passo di A1 per passare dal ghiacciaio alla roccia in corrispondenza dell’attacco).

Il terzo giorno io e Francesco avevamo ancora un po’ di benzina e puntammo un evidente pilastro che spuntava possente dal ghiacciaio dove avevamo lasciato la nostra tenda. In una giornata stupenda scalammo questo fantastico monolite dove incontrammo difficoltà fino al 6a. Lo chiamammo *Vallé Shan* e lo quotammo 5654 m in onore della nostra amata Valle d’Aosta e perché una cima nella zona, scalata da alcuni alpinisti altoatesini dal versante opposto al nostro era stata nominata Tyrol Shan. La via la chiamammo *Les Pieds Gelées*  450 m. 6a max 6a obbl.

Nel frattempo anche Tomas, Matteo e Bicio scalarono svariate cime vergini, tutti ci divertivamo molto e ci sentivamo veramente liberi. Ormai eravamo decisi a sferrare un attacco sincronizzato all’Edgar: il team VDA avrebbe tentato la cresta nord – ovest invece il team trentino la cresta sud – est. Io Emrik e Francesco risalimmo al campo degli Italiani, la nostra cresta attaccava dall’altra parte del ghiacciaio. Dovevamo solo attraversarlo e scalare.

Come sempre la sveglia suonò presto e come molle scattammo in piedi e via. Con le prime luci dell’alba raggiungemmo il filo di cresta superando agevolmente il primo scivolo di neve. Saltati in cresta le cose cambiarono e le difficoltà divennero subito più serie. Avevamo superato i 5800 e una barra di roccia  ci sbarrava la strada. La superammo abbastanza agevolmente e la valutammo 5, le difficoltà più grandi erano date dal freddo e dal fatto che dovevamo scalare sempre con i ramponi ai piedi e non sempre era possibile proteggersi. Finalmente verso le 12:00 spuntò il sole, i tiri si susseguivano, scalavamo su terreno misto a tratti verticale ed eravamo sempre con due picozze in mano perché affrontavamo spesso difficoltà attorno al M5. A circa 6200 m. fummo costretti a spostarci sul lato nord. Superammo altri 100 m seguendo una logica goulotte con a metà un bellissimo salto di IV. Con altri 100 m di terreno misto giungemmo su uno splendido terrazzo a 6400 m. Da quel punto ci sembrava fatta. Aggirammo un pilastro di roccia gialla e proseguimmo sul pendio successivo. Ero io in testa alla cordata e dopo alcuni passi mi accorsi che qualcosa non andava. Eravamo a 6450 m e la neve di colpo divenne inconsistente, era cambiata ed era diventata farinosa. Mi sembrava di nuotare immerso in un mare di sale grosso, non riuscivo più a salire. Eravamo in un pendio sui 45°/50°, vedevamo la cornice sommitale e mancavano 200 m alla vetta. Ma non riuscivamo più a salire. Siamo rimasti più di un’ora provando in tutti i modi possibili. Non avevamo il materiale da bivacco, era chiaro che se non riuscivamo a salire dovevamo scendere. Dopo un’ora increduli e delusi, decidemmo di scendere: avevamo dovuto arrenderci a meno di 200 m dalla vetta. Incredibile!

La discesa non sarebbe stata facile: mi misi io davanti ad attrezzare le soste e dopo alcune doppie una corda si bloccò. Dovetti risalire per 60 m. Era tardi, sapevo che dovevo sbrigarmi, fortunatamente risolvemmo presto l’intoppo e ripartimmo. Rientrammo sfiniti in piena notte al campo degli Italiani dopo aver attrezzato 20 doppie, la maggior parte delle quali in piena parete ovest.

Il giorno dopo con le ossa rotte dalla delusione rientrammo al campo base. Di fatto la nostra corsa si fermò sull’ultimo evidente pilastro che domina su tutta la cresta quindi abbiamo deciso di nominare il pilastro e la via  *PILIER DE L’ESPOIR* 6.450m. : 1000 m. (dal ghiacciaio) AI 4+ V , M5. La meteo annunciava l’arrivo di una perturbazione, quindi brutto per svariati giorni. Eravamo tutti delusi anche Tomas e compagni hanno rinunciato alla loro via: troppo pericoloso, le condizioni anche da quel lato non erano buone. Finalmente, dopo qualche giorno la meteo divenne più clemente e ci concesse una chance, tutti volevamo la vetta dell’Edgar e puntammo spediti al campo degli Italiani. Le condizioni erano decisamente cambiate. Dovevamo tracciare in 30 cm di neve fresca e arrivati al campo, ci accolse una bufera che aveva danneggiato seriamente la nostra tenda. Riuscimmo a prepararla e ci infilammo dentro, dovevamo restare seduti e reggere i picchetti a turno.

Avevamo in mente di aprire una via nuova sulla parete ovest ma il vento non voleva mollare. Alle 5 di mattina come per magia tutto tacque, un rapido confronto con i trentini e decidemmo di dividerci. Io Tomas e Matteo puntavamo alla via nuova invece Emrik, Francesco e Bicio alla normale. L’idea era di ritrovarsi tutti assieme in vetta.  Matteo non era in forma: aveva dei forti problemi intestinali quindi io e Tomas decidemmo di dividerci la via: la prima metà sarebbe toccata a lui e la seconda a me. Si alzò l’alba e ci rendemmo conto dello spettacolo che avevamo intorno. Una giornata perfetta. La nostra via era un sogno: una goulotte magnifica con un salto verticale a circa metà. Io e Tomas stavamo benissimo e ci intendevamo come se scalassimo assieme da una vita. Velocissimi, aprimmo 600 mt di via e ci trovammo a circa 6400. sulla via normale. Vedemmo i nostri amici salire dalla via normale, eravamo euforici. Lasciammo lì il materiale e ognuno di noi, con il proprio passo, cominciò a salire su questo immenso crostone di neve. Appena prima della vetta ci ricongiungemmo con gli altri: fu un momento splendido. Ci abbracciammo e poi a piccoli gruppi salimmo in vetta. La vetta era stretta ed era delimitata da un’immensa cornice quindi era meglio raggiungerla due alla volta. Per primi salimmo io e Tomas. Eravamo euforici, non riuscivamo ad aspettare. Quando tutti ebbero toccato la vetta, iniziammo la discesa e prima del buio eravamo al mitico campo degli Italiani. Il giorno seguente sotto una fitta nevicata smontammo le tende e rientrammo al campo base.La nostra via la chiamammo: *Colpo Finale* 600 m. AI V M4

Di fatto, la nostra fu la 4 salita dell’Edgar, la prima fu aperta da parte di alpinisti Coreani per quella che adesso viene considerata la via normale. La seconda fu ad opera di due alpinisti americani sul versante sud per il quale vinsero il Piolet D’Or. La terza quella di Tomas in solitaria e la quarta la nostra, ad opera di tutti i membri della spedizione. Nei giorni seguenti cominciammo il lungo rientro verso la civiltà e poi verso casa in Italia.

Ho un ricordo splendido di questa spedizione: per più di un mese abbiamo scalato liberi, sereni e felici su delle montagne inesplorate e selvagge. Con Emrik e Francesco ormai ho un feeling quasi fraterno invece non conoscevo bene gli altri ragazzi : Matteo, Bicio e Tomas. Fu un piacere conoscerli e condividere con loro questa bellissima esperienza. In particolare sono rimasto impressionato da Tomas, una persona di cuore e allo stesso modo uno degli alpinisti più forti con il quale ho avuto l’onore e il piacere di legarmi. Spero che in futuro ci saranno altre occasioni per tornare in montagna assieme.